mercoledì 19 dicembre 2012

Natale


Il Natale è come un doberman nascosto dietro una siepe, tu scavalchi tranquillo tranquillo il muro di una giornata qualsiasi e lui è lì che ti ringhia minacciosamente in faccia. Ti coglie all’improvviso, quando arriva arriva e non puoi fare altro che tirare fuori dal ripostiglio l’albero e attaccarci sopra le palle, che dopo un anno di lavoro non vedi l’ora di toglierti quel peso ingombrante di dosso e le attaccheresti ovunque, e perché no su un pino di plastica tutto illuminato da lucine della LIDL e nastrini oro e argento.

Che poi in fondo il periodo natalizio in se non è neanche male. Traffico caotico in giro per le strade, freddo intenso che ti congela mani, piedi e naso appena esci di casa, buonismo ipocrita sventolato impudicamente come un reggiseno durante un concerto di Robbie Williams, strade imbastardite di neve marcia. Però tutti questi effetti collaterali vengono in qualche modo accettati, sopportati con rassegnata condiscendenza perché comunque sai che si avvicina il momento delle meritate vacanze di Natale. Qualche giorno da passare a casa a mangiare, bere e riposare. Sai che ogni tua azione sarà accompagnata da quelle musichette rilassanti da tenere in sottofondo, per esempio quando apparecchi la tavola, o impazzisci davanti ad un puzzle di 5000 pezzi, o fai tutti quei maledetti lavoretti di casa che hai rimandato per tutto l’anno.  Metti sullo stereo qualcosa tipo Let it snow  cantata dalla voce calda di Dean Martin, o  Have yourself a Merry little Christmas, che mi fa sempre immaginare slittini carichi di bambini vocianti che corrono veloci a Central Park ( sono schiavo della filmografia ‘mmericana), oppure un classicissimo : ‘O tiempo se ne va degli immortali Squallor, che con la loro squisita poetica vi trascineranno senza scampo nel clima del Natale come un uragano.

Che bei momenti, che deliziosi attimi di intimità familiare passati sul divano a vedere film intramontabili tipo Il piccolo Lord, Una poltrona per due o Ben Hur, immancabili perle cinematografiche che ci vengono propinate anno dopo anno, puntuali come l’aumento della benzina, soporiferi come una puntata di Porta a Porta.

Ma in mezzo a tutte questi virtuosi passatempi da paese dei balocchi, che ti fanno ringraziare la provvidenza per averti fatto nascere nell’occidente prospero e tecnologico, ci sono, ahimè, anche dei momenti spiacevoli, o per lo meno di difficile digestione.

 Il calvario dei regali di Natale.

 Negozi zeppi di persone sudate e incazzate, paonazze con la pressione a 200 alla ricerca spasmodica del peluche parlante che ha implorato la nipotina, o del gioco ultra mega fantasmagorico chiesto dal figlio prediletto. Genitori arrampicati come ragni su scaffali traboccanti di colorate nefandezze, mogli determinate a vedere la scritta Game Over sulla carta di credito platinum, mariti che spingono carrelli traboccanti con la gioia negli occhi uguale uguale a quella di minatori che spingono i loro carrelli 1000 metri sotto terra. Babbi Natale rubizzi che si aggirano per le strade scampanellando rumorosamente, ubriachi fradici di Amaro Averna.

No, grazie. Io, come disse la buonanima di Scalfaro: “Non ci sto, io dico no”. Già, ma allora che fare ? come risolvere l’annoso problema dei regali ?

Una soluzione, la migliore dal mio punto di vista, è lasciar semplicemente perdere. Non regalare niente a nessuno, far finta di niente, inventarsi un’amnesia temporanea, una psoriasi topica fulminante, un’allergia traumatica verso il pacchetto regalo in sé, un gomito che fa contatto col cotechino colle lenticchie, uno shock emotivo perché quando avevi dieci anni tua cugina te l’ha fatta vedere. Insomma, a me va bene tutto, anche sorbirmi un concerto di Gigi D’Alessio accompagnato da zampognari peruviani in piazza Duomo il 31 dicembre, ma questa cosa dei regali davvero non la reggo.

Non ho fantasia, mi mancano le forze, mi areno davanti agli sterili binomi papà-cravatta e mamma-profumo, moglie-IstruttoreDiTennis, figlia-Iphone 5. No signori, non so voi ma io non ce la posso fare.

 Però, se per voi è diverso, se siete di quella imperscrutabile, coraggiosa razza che gode nel fare e ricevere regali, beh allora…a pensarci bene qualche idea per voi ce l’avrei.

Un maglione a dolce vita per sconfiggere l’amarezza di alcune giornate.

Un set di coperchi per quel diavolo di vostra suocera, alle pentole ci pensa lei.

Dieci spremute di arancia-limone-mandarino-fragola-mirtillo da bere saltando la corda.

Un quadro di una natura ferita. ( regalarlo che è già morta si capisce che è riciclato )

Una mazza da baseball, un crick e una catena per l’automobilista pacato che è in ognuno di noi.

Una bambola gonfiabile bucata, tanta fatica per gonfiarla e poi, sul più bello…

Una piccozza per un piatto di picspaghetti.

Un sommergibile nucleare dell’ex unione sovietica ( so che vengono via a poco ).

Il calendario Maya del 2013. ( esiste esiste, rigorosamente made in China ).

La raccolta delle esternazioni del Cavaliere dal ’94 ad oggi travisate dalla stampa. Opera in 12 volumi di 2000 pagine l’una.

Oppure, un altro regalo che non impegna più di tanto, che al limite lo prendi e lo metti in un angolino dimenticandotene, che tra il caminetto e una sedia che balla vedrai che un’utilità la si trova, uno di quelli che: “qualcosa gli devo pur regalare”. Insomma, che ne pensate di un bel libro ? che poi magari proprio bello non è ma il concetto editoriale resta valido.

Come dite ? Sono partigiano nel mio consiglio ? è vero, mea culpa. Ma non cadrò nella tentazione di farvi un titolo “a caso”, tanto chi mi conosce sa dove andrei a parare, voglio solo portare alla vostra conoscenza alcuni eventi che forse vi aiuteranno a compiere una scelta oculata.

Ripeto, non voglio assolutamente influenzarvi ma sappiate, tra l’altro, che due miei amici che non hanno preso il mio libro pochi giorni dopo uno ha perso il lavoro e l’altro è stato lasciato dalla moglie. Ora vivono insieme, si sono fatti crescere le tette e si fanno chiamare Luisa e Chantal e quello che aveva perso il lavoro ne ha trovato un altro, riceve in casa ed è confuso e felice.

Un altro amico si è tuffato immediatamente in libreria per prenderlo e la settimana dopo ha fatto 6 al super enalotto, vinto un abbonamento per dieci anni a “Tutto uncinetto” e pestato tre cacche in meno di un‘ora.

Ora, non so voi, ma io un pensierino ce lo farei…

Di seguito, per allettarvi ulteriormente, i commenti di alcuni miei appassionati lettori.

“Leggere un romanzo di Davide Gorgi è sempre un’esperienza splendida. Ottima scrittura, personaggi ben caratterizzati. In poche parole : geniale”

(Pinocchio)
 

“Farfalle a Milano è più letale delle mie lame rotanti”

(Goldrake)
 

“Mi è piaciuto o non mi è piaciuto…questo è il problema”.

(Amleto)
 

“Juventus è squadra di dopati, nel giro tutti sanno, da sempre…qual era domanda ? Farfalle dove ??”

(Zdenek Zeman)
 

“Il libro in sé non è un granché, ma la copertina lo innalza di almeno due spanne”

(Olivier “Psycho” Catenacci, autore della copertina)
 

“Mi ricordo i suoi temi da brivido, zeppi di errori. Noto che il tempo non lo ha migliorato”

(la maestra delle elementari)
 

“Leggere Farfalle a Milano porta a scontrarti col tuo lato oscuro”

(Luke Skywalker)
 

“Quando ho guardato di sotto ho pensato – col cazzo che salto – poi da giù mi hanno minacciato di farmi leggere Farfalle a Milano. Beh, com’è finita lo avete visto anche voi”.

(Felix Baumgartner)
 

“Che tenerezza il ragazzo della storia, vien voglia di preparagli una torta di mele”

(Nonna Papera)
 

“I frequesnti richiami musicali, affogati brillantemente nella storia, già da soli valgono il prezzo del romanzo, devo dire però che quando l’ho letto ero in pieno trip…”

(Jim Morrison)
 

“Farfalle a Milano è un romanzo supercalifragilisticaspiralidoso…”

(Mary Poppins)

 
“Gli ho detto che non potevo leggerlo e allora mi ha fatto comprare l’audio libro…e mi ha fregato!”

(Stevie Wonder)

 
“Non è bello e con le donne non ci sa fare. Di corse di cavalli non capisce niente ma, cazzo, come scrive…”

(C. Bukowski)

"Gli ho chiesto dove potevo andare a prenderlo, mi ha risposto "è lui che verrà a prendere te".
(John Rambo )
 
Per finire, Buon Natale a tutti voi e ai vostri cari, passate delle serene vacanze e un buon fine anno.
Adesso purtroppo devo lasciarvi, devo correre a sistemare i feltrini sotto il tavolino della sala, sistemare gli scaffali della cantina, controllare la pressione degli pneumatici della bici di Gaia, mettermi la crema antirughe, comprare un puzzle…
Ah, dimenticavo, l'anno che verrà vedrà la luce del mio terzo romanzo.
Il mio editore mi ha da poco comunicato che prevede di pubblicare un mio manoscritto dal titolo :
Adam Clayton, un gatto, un topo e l'elefante.
La data per l'uscita non è ancora stata fissata, vi farò sapere.

baci e abbracci
Davide

lunedì 10 dicembre 2012

I Miei Corti - Buon Appetito


Buon Appetito

 

“Veleno per topi”.

L’uomo si guarda attorno con fare smarrito, lascia cadere il cucchiaino metallico, che atterra sul pavimento dalle mattonelle sbeccate e traballanti come un pensiero peccaminoso, con un rumore sordo. Doveva aspettarselo, è stato forse troppo ingenuo ad entrare in quella casa disarmato, confidando che l'inarrestabile fluire dei granelli di sabbia della clessidra della vita avessero cancellato il dolore o almeno sbiadito i contorni del rancore.

L’appartamento è angusto, la sala cucina è arredata con semplicità, mobili vecchi e consunti ma tenuti in ordine e puliti, la carta alle pareti è in parte macchiata di umidità vicino agli angoli, un vaso con delle gerbere rosse sul comò e delle tendine rosa e gialle alla finestra colorano l’ambiente rendendolo accogliente nella sua onesta umiltà.

“Perché ?”.

 Chiede in un soffio, anche se in fondo conosce già la risposta. Afferra una sedia di paglia, la scosta lentamente dal tavolo di legno consumato e si siede lasciandosi cadere pesantemente. Si stringe nella giacca verde, si toglie il cappello a tesa stretta e lo appoggia sulla tavola, di fianco al piattino contenente la fetta di dolce appena intaccata.

“E perché no?”.

 La voce della donna è dura come la salita delle Ande in bicicletta, il suo sguardo è una lama che affonda nell’anima dell’uomo di fronte a lei. Gli anni passati hanno segnato il volto e il fisico di quella che un tempo, si intuisce, era una bellissima creatura, nata per vivere una vita serena, in una bella casa, con una famiglia felice. Una vita da favola di cui si sapeva già il finale: “ E vissero per sempre felici e contenti”. La favola che ogni bambino sogna per se. Solo che la favola si è rivelata essere un terribile incubo e ha vissuto una vita tutt' altro che felice e contenta ma straziante, sola in uno stabile decrepito nella periferia malata di Buenos Aires.

“Non avevo scelta, ho fatto solo quello che dovevo”.

 “Si ha sempre una scelta e la tua è stata quella sbagliata”.

 I due hanno parlato quasi sommessamente, come se parlassero del clima impazzito o di ricette di cucina, una sorta di distacco, denso come una giornata di nebbia nelle pampas in autunno, accompagna lo scandire delle parole, ancora fluttuanti nell’aria satura dell’odore di pollo arrosto poggiato di fianco alla cucina a gas.
 
 “Sono venuto per dirti che un dottore mi ha annunciato che sto per morire”.

 “Tutti dobbiamo morire. Io sono morta quarant’anni fa, sei tu che mi hai uccisa”.

 Un passerotto atterra sul davanzale, osserva distrattamente la scena all’interno della stanza, un attimo dopo vola via senza voltarsi, evidentemente ciò che ha visto non ha destato il suo interesse, o forse ha percepito qualcosa che, una volta svelato, avrebbe appesantito troppo le sue tenere ali.

 “Mi dispiace. Sono passato solo per chiedere scusa. Forse non sarei dovuto venire”.

 “Forse no”.

 I due rimangono in silenzio, si osservano muti, poi la donna riprende.

 “Sai, devo farti i  complimenti per il tempismo, ci hai messo solo quarant’anni per chiedere scusa, ma ormai è tardi, del resto sarebbe stato tardi anche quarant’anni fa”.

 Dal rubinetto gocce rumorose cadono nel lavandino di ceramica come macigni di una slavina, dall’orologio appeso alla parete di fianco alla stufa, il ticchettio costante si espande come una marea ineluttabile, dal piano di sopra rumori di corse, di botte, di piatti rotti e di insulti. Grida disperate si piegano alla ferocia di aride lacrime.

 “In quel tempo, in un'altra vita, mi sembrava giusto, dovevo proteggere il mio Paese, credevo di poter essere utile, di poter essere ricordato come un eroe, volevo che fosse così”.

 “E lo sei. Per il tuo Paese sei un eroe, hai raggiunto il tuo obiettivo, sei stato bravo e tenace. Hai tirato dritto per la tua strada spazzando via tutto ciò che si frapponeva tra te e la tua meta. Hai rubato, tradito, ucciso, mentito, ingannato, tutto per la vostra causa, per la tua causa.

 Purtroppo tra te e il tuo fanatismo si sono messe in mezzo persone, uomini, donne, bambini, un fastidioso  impiccio da travolgere e spazzare via. Come li chiamate voi? effetti collaterali, mi sembra”.

 L’uomo si china lentamente e afferra da terra il cucchiaino, poi lo appoggia delicatamente sul tavolo. Fuori, i rumori del traffico e dei clacson impazziti, sono un sottofondo dodecafonico che non ha la pretesa di penetrare i pensieri muti dei due. È ancora la donna che parla, la sua voce prende consistenza col passare dei minuti, i suoi occhi scuri gettano lampi di una vitalità tenuta a lungo sotto una cenere grigia come la sua esistenza.

 “Lo hai fatto anche con lui. Lo hai fatto portare via di notte, indossava ancora il suo pigiama a righe verdi e azzurre, quello che gli regalammo per un suo compleanno, ricordi ? Era terrorizzato. Stiamo parlando di tuo padre. Te lo ricordi? L’uomo che ti portava a vedere le partite di pallone, che ti teneva sulle spalle, che ti ha insegnato ad andare in bicicletta ?

 Lei se n’è andata poco dopo, non ha retto allo strazio, semplicemente una mattina non si è svegliata, credo sia morta sognandolo, il volto appoggiato sul cuscino aveva il sorriso beato di chi ha trovato quello che stava cercando”.

 “Ho saputo tutto, subito. Mi dispiace, vorrei poter tornare indietro ma non si può, è un peso che mi porto dentro da tutta la vita. Sono venuto a salutarti prima di lasciare questo schifo di mondo”.

 Il vecchio generale fa per alzarsi, ma improvvisamente il peso della costellazione di stelle sulle spalline e sul petto della divisa militare d’ordinanza sono un fardello che gli piega le ginocchia, è costretto ad uno sforzo ulteriore per riuscire a rimanere eretto, fiero e maestoso come un tempo, quando sfilava alla parate del regime, quando era osannato come un dio”.

 L’uomo si avvia verso la porta verde alla quale è appesa una piccola ghirlanda di fiori di plastica multicolori, apre la porta, si volta verso la donna rimasta seduta sulla sua sedia di paglia, con lo sguardo perso nel vuoto e le mani sul grembo.

 “Mi hai davvero avvelenato con il dolce preferito della mamma?”.

 “E come avrei potuto, sei pur sempre mio fratello”.

mercoledì 14 novembre 2012

I Miei Corti - H1N1

Un Corto un po' datato ma sempre attuale.


H1N1.

 
Eccolo che arriva, lo precede uno sbadiglio modello tricheco in amore che, girandosi mollemente su una spiaggia artica, si è schiacciato una palla su un sasso, superfluo dire che questo è uno dei suoi cavalli di battaglia. Come il solito indossa quell’orrendo pigiama a righe, irrimediabilmente sformato su ginocchia e gomiti dagli anni trascorsi insieme. Cammina trascinando i piedi infilati nelle ciabatte distrutte di quando ha fatto il militare, venticinque anni fa. Dice che ci si è affezionato. Passando davanti allo specchio della sala si contempla beato la pancia gonfia da birra, fiero come un pavone che fa la ruota, mentre è solo una brutta copia di un quadro surrealista. Lancia un ultimo sguardo all'immagine riflessa poi si dà una sonora rimescolata ai gioielli di famiglia e si riavvia fino alla cucina, dove si siede con una specie di rantolo malato. Mi guarda storcendo la bocca in un sorriso ebete, è ancora completamente impastato dalla notte appena trascorsa, ha russato così forte da creare un effetto Larsen con i caloriferi, dormendo lascia colare una bava biancastra sul cuscino, come una vecchia lumaca della valle Brembana. Ora è pronto per la colazione, che gli ho preparato con rassegnato amore. Nooo, la riconosco quella specie di smorfia di dolore, è l’attimo che precede la tempesta mortifera, mi alzo in fretta cercando di correre ad aprire la finestra; troppo tardi, un rombo alle mie spalle mi paralizza come una statua di sale, grosso. I fiori di plastica nel vaso sul tavolo hanno esalato un ultimo, disperato respiro e poi sono crollati esanimi, inneggiando alla morte del cigno. Dopo tanti anni di matrimonio ancora non mi capacito di come un uomo dalla corporatura, in fondo modesta, possa emettere scoregge di tale portata. Durante le riunioni di condominio, alle quali non partecipo più per vergogna, c’è sempre all’ordine del giorno la richiesta di insonorizzare il nostro appartamento, di aspergerlo con acqua santa e di tappezzarlo con arbre magique al pino. Una volta ci hanno mandato pure la protezione civile e i vigili del fuoco, è stato quando dopo avere mangiato un kilo di caponata gli è partito un botto tipo Baghdad 1990, si è propagato un odore così forte e persistente che i vicini pensavano fosse successa una disgrazia con morti e feriti inclusi. Quando i vigili, dopo aver suonato il campanello, se lo sono trovati alla porta, hanno capito subito che si trattava di un finto allarme ma di un reale, potenziale, problema chimico-fisico-batteriologico. Se ne sono andati salutandomi con commiserazione. Finisce il suo caffelatte, un filo di latte gli cola sul mento macchiandogli la canottiera già disgustosamente impataccata, sorride tronfio, secondo me perché viste le sue condizioni non gli sembra vero di risvegliarsi ogni mattina. Lascia trapelare un rutto che fa partire la cappa aspirante autonomamente, a volte la tecnologia, quando attaccata, corre ai ripari, un po’ come la natura. Si alza, si gratta la barba incolta di una settimana, mi si avvicina con l’eleganza di uno Yoghi ubriaco e mi da una manata sul culo. “ Ciao bella culona, faccio una scappata in cesso. Ricordati che oggi ho la partitina a carte al bar, mi fai la pasta con le sarde a mezzogiorno?”. Si incammina lento, dopo aver preso La Gazzetta dello sport dal tavolino, direzione bagno, lo chiama “il mio quarto d’ora di cultura”. E poi mi dicono che dovrei fare la vaccinazione contro la suina. Io, che non mi sono mai beccata neanche un raffreddore, eppure sono vent’anni anni che vivo con un maiale.

martedì 6 novembre 2012

Era il 1991 e volevo la bicicletta


Se ci penso, chi me l’ha fatto fare? Quante ore sono che pedalo?

Quella che poche ore prima si era preannunciata come una di quelle giornate indimenticabili, di quelle che si collocano direttamente nella bacheca delle leggende,  si sta rivelando come tale, ma non era esattamente a questo che pensavo quando mi sono seduto sul sellino di questa maledetta bicicletta.

L’idea malsana della vacanza in bici ci era venuta qualche giorno prima, seduti sotto un albero morente in un prato spelacchiato di un parco malmesso di Milano. Tracannavamo spuma per mandare giù dei canestrelli scaduti. Claudio sonnecchiava con la bolla al naso mentre Paolo rifletteva ad occhi chiusi da dieci minuti, rifletteva!  E quando tre uomini si trovano nella felice congiunzione astrale  della vita nella quale eravamo noi, nei nostri splendidi e lontani ventun'anni, anche la proposta della pedalata Milano-Genova, con finale in Corsica, non sembrava poi così stramba.
E invece...sto maledicendo la mia avventatezza sfrontata, sto per abbandonare questa valle di lacrime. Oddio, devo ammettere che il pranzo a Tortona ha giocato un ruolo importante per definire lo stato psico-fisico nel quale mi trovo, ma cosa devo dirvi, avevamo fame. Pasta al forno di primo seguito da cotoletta alla milanese e patatine fritte, annaffiate da un vinello della casa bastardo come il ghigno dell’omone che ce lo ha servito, non proprio la dieta del buon ciclista. Ecco perché adesso, su questa strada assolata di metà luglio, nella luce tremolante del caldo africano che precede un'insolazione, vedo davanti a me la signora in giallo che si accoppia selvaggiamente col dottor Spock, che dalla foga gli si sono pure arrotondate le orecchie e c'è mia madre che prende appunti. Sento il cuore che mi pulsa nelle gengive e rimpiango un’insalatina fresca con una barretta energetica e un boiler di acqua gelata.

Pedalo e non penso a niente, vedo le schiene dei miei amici sudate e curve sui manubri, le borse appese mollemente di fianco ai nostri scudieri di ferro, piene di cianfrusaglie per lo più inutili ma pesantissime. Il caldo è opprimente, le macchine ci sfrecciano vicine con rombi cattivi, gli occupanti ci guardano con sorrisi di compatimento, di quelli che si riservano a di chi ha vinto la medaglia di cartone alle olimpiadi. Quando sento che sto per svenire, con un ultimo refolo di fiato chiamo i miei amici : “ahahiaempf”. Non mi escono le parole, ho la gola arida, gli occhi secchi, i polmoni sgonfi, le gambe molli e il culo che…è come se non avessi più il sellino e credetemi, non è bello pedalare così. Percepisco che si sono fermati, mi aspettano. Uno di loro mi dice “dai attaccati, ti tiro io”. Penso che potrei sposarlo per questo.
Il passo del Turchino lo faccio a piedi, tiro la mia bici tenendola dal manubrio, lei mi osserva stranita, mi sento come Mosè che fugge dagli egiziani. Ma resisto. In qualche modo arriviamo a Genova, mi ricordo solo l’ultimo pezzo, una discesa che mi ha fatto piangere dalla commozione. Poi, non so come, mi trovo su una sdraio sul ponte del traghetto, scopro con un sorriso ebete che soffro pure il mal di mare, in effetti mancava la ciliegina sulla torta.

Quando mi sbarcano, come fossi un vecchio container arrugginito, strizzo il maglione comlpetamente bagnato che ho tenuto addosso duranta la traversata, apro gli occhi e vedo il mare, sento il profumo della macchia mediterranea, il cielo azzurro, le urla dei gabbiani, quattro ragazze sorridenti in bikini e penso che sì, ne valeva la pena. Poi una voce mi distoglie bruscamente dai miei pensieri: “Dai che dobbiamo arrivare a Calvì, dall’altra parte di questa montagna”.
E se non la volessi più la BICI?

giovedì 25 ottobre 2012

cortissimo

microracconto che ho messu su Anobii per "rispondere" ad un giochino proposto in una discussione in un gruppo di cui faccio parte.



Mi sento circondato, braccato.
Esco di casa e lei è lì, mi osserva immobile davanti al mio portone.
La incrocio nel tragitto verso il lavoro: nera, ingombrante e oscena.
Mi segue ovunque. Fermo al semaforo rosso la vedo passare, cammino sulle strisce pedonali e lei mi si ferma a un metro di distanza, squadrandomi con inappropriata presunzione.
Esco dal supermercato ed eccola di nuovo.
Famelica, linee squadrate e forma sgradevole.
Penso che “adesso basta”, non è possibile, non può essere ovunque, non posso averla sempre tra i piedi, perché mi ha preso di mira, perché continua a tormentarmi con la sua oscena presenza ?
E non venite a dirmi che nel mondo è stata venduta più di una Fiat Freemont perché non ci crederò mai.


piccolo ma sincero...

martedì 16 ottobre 2012

per non dimenticarmi

dopo tanto, forse troppo tempo torno a leggere il mio blog. Non mi ricordavo neanche la password, ti sarai sentito abbandonato. Lo so, lo so che ti senti trascurato, che pensi che mi sia dimenticato di te, è che ogni giorno ce n'è una e non sempre si riesce a coniugare tutti gli impegni. La vita è un casino, ma forse no. Basta sapersi organizzare, dici ? La fai facile tu. Appena sento quell'odioso bip bip della sveglia già so che mi aspetta una giornataccia. e quando appena apri gli occhi hai già in mente quello che verrà di lì a poco e sai che non sarà per niente piacevole, ti vien da chiederti cosa apri gli occhi a fare. Ma non si potrebbe vivere per sempre in uno stato di vacanza perenne ?
Ci sono quelli che nella vita devono fare, costruire, lasciare il segno, insegnare e tante altre cose lodevoli e sensate. Io mica tanto, non sono così intraprendente. Cioè, per fare qualche esempio se dovessi scegliere chi vorrei essere...
Prendiamo John Elkann e Lapo. Lapo tutta la vita ! Vuoi per i capelli, vuoi per l'utilizzo brillante della grammatica italiana, vuoi per i mocassini in falso bue, vuoi per la erre moscia. Insomma, io come Lapo ci starei bene, al limite, rispetto a lui, avrei qualche frequentazione un pochino diversa, niente Patrizia, ma per il resto lo prendo così com'è, quasi a scatola chiusa.
Ma andiamo avanti.
Prendiamo William e Harry, i due principi inglesi, figli di Carlo e Diana. Ma volete mettere ? Harry, no contest! Beve e fuma di tutto. Viaggia per il mondo, donne a mazzi, pensieri zero...non gliene frega niente manco dell'etichetta, alla faccia di quella "povera" donna della nonna, che dal dispiacere le si sono appassiti pure i cappellini.
Per adesso mi vengono in mente questi due, ma ce ne sono chissà quanti altri, adesso ci penso un po' e magari vado avanti con gli esempi.
Meno male che almeno è uscito il sole, l'autunno mi piace ma che arrivi i un giorno mi destabilizza. Foglie gialle e rosse tutto intorno, cielo color acciaio, aria frizzante. Ecco, mi è già venuta voglia di andare in vacanza...

giovedì 6 settembre 2012

come scrivere un romanzo di successo

e che cazzo ne so ?
davvero pensate che sappia come fare ? ma poi non lo faccia perché fa molto più "figo" scrivere e non essere letto. Scrittore bohemien, attore faccia di culo, artista maledetto. Maledetto una cippa, ma bella GROSSA! Cosa posso sapere io deo come si fa.
 Io, che facendo la somma delle copie vendute con due romanzi supero forse le 300 copie...
E' vero che quello che scrivo non è certamente qualcosa da ricordare, nè da annoverare tra i romanzi che lasceranno un segno nella "letteratura" italiana, però mi capita di leggere di quelle cose, pubblicate da GRANDI case editrici, che mi tolgono le forze, tipo un ceppo di insalata lasciato sotto un sole a picco per 12 ore. Mi affloscio.
E mi chiedo, perché lui/lei sì e tanti altri no ?
Perchè "La solitudine dei numeri primi" ha venduto milioni di copie e ci hanno fatto pure un film ? ma lo avete letto ? è di un insulso e improbabile da far paura, e anche la scrittura non ha nessun tratto distintivo, è un libro assolutamente dozzinale.
Poi leggo dei romanzi presenti in rete, di autori che non riescono a pubblicare manco vendendo l'anima a Goldrake e scopro dei geni. Alcuni sono bravissimi.
E quindi ? come funziona ?
riposta : rileggetevi la prima riga del post,  non fatemi essere scurrile più del dovuto.
Comunque, se avete suggerimenti, consigli, che possono anche essere :vatti a fare un corso di scrittura. Piuttosto che : lascia perdere la scrittura che siete incompatibili e vai a pesca. Per me va bene. mi va bene tutto.


lunedì 16 luglio 2012

I Miei Corti - tempo al tempo

Tempo al tempo


Il fare disinvolto e lo sguardo annoiato, se ne sta appoggiata, zampette mollemente incrociate sul petto, su un dente di leone, giallo come il tiepido sole di aprile che scalda l’aria. Canticchia qualcosa, più per passare il tempo che per una vera vocazione canora.

 “Che noia, sono già tre giorni che sto qui a non fare niente, più che volare qua e là di fiore in fiore non faccio, mi domando come possano trovare divertente una vita simile tutti gli altri, guardali come corrono e volano, con quella loro aria felice, sciocchi”. Sbuffa, corrugando la bocca come un bimbo capriccioso. “Sai cosa? mi piacerebbe andare che so, al mare per un po’. Lì potrei dipingere, non che sappia dipingere, ma mi piacerebbe provare l’emozione di creare qualcosa, mi piacerebbe anche saper ballare e cantare. Potrei fare la soubrette, o la presentatrice a Miss Italia o fare un concerto allo stadio San Siro.”.

 Il ronzio intorno è continuo, gli altri frequentatori del prato fiorito non sembrano fare molto caso al soliloquio della loro compagna di sbronze di nettare. Una nuvola solitaria passa veloce sopra le loro teste.

 “Ma tu guarda come corre, sembra una pecora in fuga da un branco di lupi affamati, a volte vorrei fuggire anch’io, magari lo farò uno di questi giorni, per ora mi basta starmene qui sdraiata a prendere il sole, vivo nell’ozio e mi ci crogiolo”.

 Un gruppo di formiche in fila indiana passa sotto il fiore giallo come il sole di aprile, trasportano pesanti avanzi di un qualche pic-nic domenicale. Lei, sporgendosi quel tanto che basta, getta uno sguardo benevolo quanto di commiserazione poi, scuotendo il capo prosegue.

 “Dico sempre, non fare oggi quello che puoi fare domani, hai tutta la vita davanti, ma si può lavorare con questo sole? è contro natura”.

 La coccinella paciosa di fianco a lei, silenziosa fino a quel momento, decide finalmente di dire la sua.

 La sua voce è calma e pacata, il tono lievemente ironico.

“Lo sai che in natura esistono animali che vivono solo per pochi giorni?”.

 Lei risponde senza scomporsi minimamente, si stiracchia le belle ed eleganti ali colorate: “Davvero ? No, non lo sapevo. Poverini”.

 “Già, capita per alcuni insetti, le farfalle per esempio….”.

 Silenzio di lei che continua a sognare spiagge bianche, una carriera da velina a ‘Striscia la Notizia’ e una storia di sesso con un calciatore.
 “Tu lo sai che tipo di insetto sei, vero…?

venerdì 22 giugno 2012

I Miei Corti - Senza nome

Senza Nome.

Impavido, contro il freddo pungente della sera; solo, come Lilly senza il vagabondo, nell’immensa distesa di neve linda, talmente bianca e pulita che ti vien voglia di buttarti dentro tanto ti sembra morbida ed accogliente, proprio come l’ovatta che hai messo nel presepe sul comò. Se ne sta lì impettito ad aspettare qualcosa, o qualcuno che gli tenga compagnia. Sembra sentirsi a proprio agio, con quelle braccia che puntano verso il cielo come sottili stecchi di legno, impermeabile all’indifferenza delle tante persone che, passandogli a fianco, quasi non lo degnano di uno sguardo. Ha imparato che la vita è fatta così, è un bene aleatorio, prima non ci sei, al massimo sei un'idea nella mente di qualcuno, poi cresci plasmato a loro piacimento, finché un bel giorno di te non rimarrà altro che una macchia di ricordo, che un raggio giallo di un sole tiepido farà svanire lentamente, in una mattina splendente e profumata di primavera. Ma oggi quel giorno sembra così lontano, speri che sia lontano.
 Le luci del Natale accese tutto intorno creano una bella atmosfera, una leggerezza nell’aria che si riesce a percepire anche nella gente che passa frettolosa, avvolta in cappelli di lana spessa e giubbotti dai colori un po’ tetri.  Ma che ti importa, tu continui imperterrito a sorridere a tutti, un sorriso che sembra un ghigno, un sorriso freddo, immobile, un solco scuro in un viso algido. E lo sguardo, altrettanto glaciale, come se guardassi senza vedere niente, o forse è solo perché quello che vedi non ti piace, non ti appartiene, due occhi scuri e fissi come bottoni di un cappotto d’altri tempi. Porti la cravatta, ma lo fai senza pretese di apparire elegante, del resto una cravatta del genere arriva sicuramente da un mercatino dell’usato, acquistata per pochi centesimi, forse è stata scelta perché si abbina alla perfezione col tuo naso, lungo ed affilato come una carota poco matura. Pensieri vagano liberi, sono parole con le ali spiegate verso emozioni lontane, leggeri come la neve che sta cominciando a cadere da un cielo bianco come il latte nella ciotola di Sambuca.
 Sambuca è un vecchio San Bernardo, prestato, suo malgrado, alla città. Passeggia alla ricerca di un albero, impresa non sempre agevole nel grigio di cemento della metropoli, col naso sfiora il bianco della neve, passa di fianco al tizio con la cravatta imbarazzante, è completamente assorto nella sua missione, alza la testa, lancia uno sguardo distratto e tira dritto verso qualcosa di più adatto dove poter fare pipì. Una bambina fa qualche passo timido verso di quegli occhi neri che sembrano fissarla, lo osserva con attenzione, gli sorride aspettandosi un sorriso, lo saluta aspettandosi un saluto. Non riceverà né l’uno né l’altro. Lui non è stato fatto per questo genere di cose, vorrebbe farlo, davvero. Ma non può.
Vorrebbe dirla qualcosa, chiederle di fermarsi un po' accanto a lui, regalarle un attimo di compagnia, dal quel sorriso immobile non escono suoni.
 La bimba, bella e dolce come una ninna nanna, chiama la madre, vuole mostrarle quello strano essere immobile davanti a lei. La madre ha fretta, deve tornare a casa, deve preparare la cena, deve mandare la lavatrice, deve lottare contro il disordine che regna sovrano nell’appartamento, deve deve deve. Natale non cambia i doveri di una madre, così, un po’ seccata per i preziosi secondi persi richiama a sé la figlia, che ubbidisce voltandosi un'ultima volta e salutando con la manina quello strambo personaggio.
 Così ora è di nuovo solo nel grande spazio bianco. Pensandoci bene non sa neppure come si chiama, si sono dimenticati di dirglielo o forse nessuno glielo ha dato un nome, a cosa serve dare un nome ad uno come lui, un nome dà un’identità, ti permette di dire IO SONO. E lui cos’è ?
 Solo un pupazzo, un malinconico e solitario pupazzo di neve.

giovedì 14 giugno 2012

I Miei Corti - Per un giorno

Per un giorno.

La stanza è spoglia e umida. Nel centro, un tavolino a tre piedi e una sedia di formica rossa che ha visto tempi migliori. Un tappeto consumato sotto la finestra, aperta. L’uomo sta guardando fuori, non sembra dare molta importanza a quello che avviene dieci piani sotto di lui, per strada. Ora è nella sua “torre” di mattoni rossi, perfettamente a suo agio, solitario come un passero. Lo sguardo stanco, assorto in pensieri lontani. Freddi e dolorosi come una lama di ghiaccio. Indossa una vecchia camicia di flanella a scacchi rossi e dei pantaloni di velluto scuro consumati sulle ginocchia. Gli occhiali dalla pesante montatura hanno una lente sbeccata, i capelli, o quello che rimane, giacciono malamente appiccicati sulla testa ovale. L’età è indefinita, potrebbe essere un vecchio trentenne come un giovane sessantenne. L'età è un bene sul quale nessuno può effettuare sconti.
 La vita fa schifo, è tutta sbagliata. Quanto dura la felicità? Pochi anni, i primi, i più lontani, quelli che svaniscono in fretta come un deodorante nei cessi di una stazione. Quelli che neanche ti godi perché non ti rendi neppure conto di essere vivo. E se per caso lo dovessi sapere non ti frega niente del domani, perché il domani è lontano. Quegli anni sei sicuro che non finiranno mai. Poi ti svegli e un giorno scopri che c’è solo una sequenza di giornate sempre uguali, fino alla morte. Ogni giorno hai un giorno in meno di vita, ogni giorno ti avvicini all’ultimo, prima o poi la roulette fermerà la sua corsa, la pallina prenderà il suo posto e sentirai qualcuno chiamare il tuo numero, nient’altro.
 Fuori i rumori stanno salendo di tono, grida di gioia, qualche applauso, clacson di auto e sirene, palloncini colorati e una musica allegra in sottofondo.
 Chi si ricorderà di me quando non ci sarò più, chi ? e per quanto tempo? Come si raggiunge l’immortalità? Non ho la voce di Elvis, non ho il genio né  la mano di Dalì, non eccello in nessuno sport, non sarei in grado di scoprire nessuna cura, nessun rimedio miracoloso per salvare  l’umanità, niente. Sono niente. L'umanità è niente.
 Si avvicina al tavolino, afferra l’oggetto appoggiato sulla tovaglietta di plastica verde e lentamente si riavvia verso la finestra, la musica di prima adesso è più chiara, sale distintamente fino alla finestra aperta, è quella di una banda che ora è esattamente dall’altra parte della strada, di fronte a lui. I gesti sono dell’uomo sono precisi, studiati, pesanti e definitivi come pietra.
  Inizi col fare fatica a muoverti, le cose che facevi da giovane, anche le più scontate, ti costano fatica, ma non ti puoi lamentare, con la testa ci sei ancora. Sai ancora leggere e capire un giornale, sei in grado di allacciarti i bottoni di una camicia. Poi cominci a perdere i colpi anche con il cervello e allora cosa ti rimane? L’attesa…della fine. Un breve ultimo saluto dai pochi conoscenti ancora vivi, un necrologio, piatto come l’elettroencefalogramma del mio capoufficio, su una lapide dozzinale e il signor nessuno è dimenticato. Definitivamente. Per sempre. E invece io voglio essere ricordato, non posso, non voglio morire come sono vissuto, all’ombra di calendari indifferenti, con i fogli strappati mese dopo mese, anno dopo anno, fino a lasciare intravedere ogni volta quelle soffocanti pareti scrostate della mia cucina.
  Qualche poliziotto tiene a bada la gente che si è assiepata vociante ai bordi della strada ormai ricca di folla, gli applausi salgono fino alle orecchie dell’uomo. Infastidendolo. Gli occhi prendono vita, un lampo di calore li attraversa accendendoli, ma è solo un attimo, le tenebre della disperazione tornano al loro posto, velandoli di un’ombra malevola. Con un movimento secco imbraccia l’oggetto pesante che tiene in mano.
 Per sempre, vivrò per sempre. Immortale come la Gioconda, come l'odio.
 Un occhio chiuso, l’altro nel piccolo cannocchiale di precisione, puntato alla testa del presidente,  ben centrata nel cerchio scuro del mirino, il dito sul grilletto del fucile.
 Per sempre.
 CLICK!

martedì 12 giugno 2012

così

ci sono giorni nei quali non hai voglia di fare niente, neanche di respirare, neanche di mettere le maiuscole dopo il punto, perchè farlo ti costerebbe una fatica che neanche Ercole. quei giorni lì a me capitano qua e là, in ordine sparso, a macchia di elefante ( come dice un mio collega), per motivi oscuri. sarà la noia, sarà il clima indisponente, sarà il lavoro, sarà la musica che gira intorno. mi piacerebbe...non lo so, forse niente, non mi piacerebbe niente. forse andare al mare, o forse in montagna o magari addormentarmi sul divano con la televisione accesa che trasmette un vecchio film, di quelli dove i doppiatori italiani avevano quelle voci che per me rimangono meravigliose.
sento la necessità di aspettare. aspettare che capiti qualcosa, perché prima o poi qualcosa deve capitare. o no ?  e se poi non capita, fa niente, magari nel frattempo mi è tornata la voglia di fare qualcosa, qualsiasi cosa. correre, leggere, scrivere, lavorare. no, magari lavorare no, ma tanto fra poco andrò in pensione, vero Fornero?
mi sa che urge la necessità di trascorrere delle serene e lunghissime vacanze.
devo ricaricare le batterie, chissà dove me le hanno infilate le batterie, quando sono nato. ci sono cose che è meglio non sapere, credo che alla base della vera felicità ci sia una solida, inoppugnabile, beata ignoranza.
e io voglio crogiolarmi nel mio non sapere, nel benessere del lato oscuro della luna e della vita. che me frega delle maree, dello spread, degli europei di calcio, delle ricette di suor germana. sapete cosa vi dico ? non mi frega niente di niente, a parte ovviamente le mie ragazze. le mie due splendide ragazze, che mi fanno tornare la voglia di correre, leggere, scrivere, lavorare, respirare, bere, mangiare, giocare. E anche usare le maiuscole, forse perchè loro sono le mie maiuscole.

giovedì 31 maggio 2012

I Miei Corti - Oggi è già domani

Oggi è già domani.

È una di quelle giornate in cui staresti a letto fino a mezzogiorno, sotto le coperte ad oziare pigramente fino a che la schiena ti fa male, e invece senti quei fastidiosi rumori provenire dalla cucina; tua madre è già lì che sta preparando la colazione. Oggi si va in montagna, attività: odiosissima castagnata.
Arriviamo, dopo un viaggio noioso passato a sonnecchiare, in questo paese dimenticato, giustamente, da Dio e dagli uomini. Il papà parcheggia la sua vecchia SW nel minuscolo parcheggio del paese, è tutto allegro, anche la mamma sembra di buon umore, solo a me sarebbe piaciuto stare a casa a guardare la tv? Sono io quella strana della famiglia?
 Il cielo ha un colore plumbeo, le foglie gialle e rosse sono un tappeto dalla cromia calda ed accogliente, il ché fa decisamente a pugni con la giornata grigia e fredda. Chiusa nel mio giaccone imbottito mi incammino svogliatamente, capo chino e mani affondate nelle tasche, dietro ai miei genitori, che hanno puntato decisi verso un versante della montagna dove, sono sicuri, è pieno di ottime castagne. Ma guarda te mio padre, sembra un ragazzino, tutto felice, coi suoi guanti gialli raccoglie ricci su ricci, neanche fossero tartufi pregiati. Li apre con attenzione per poi buttare il contenuto nella sporta che va via via riempiendosi. Mia madre fa altrettanto, forse un po’ meno gioiosa ma lavora di buona lena anche lei, fosse così anche quando fa i mestieri di casa il papà le farebbe meno storie sull’ordine e la pulizia che alberga tra le mura domestiche, penso con una smorfia sghemba sul volto da condannato a morte.
 Non c’è che dire, proprio una bella giornata. Che noia, cerco il telefonino nella tasca dei jeans, noooo non c’è campo, e adesso come faccio ? devo messaggiare, devo chiamare Lucrezia, devo mettermi d’accordo per domani, usciamo o no con quei due super fighi della 3a B. Lo sapevo, posto schifoso e giornata schifosa. Se invece di avere solo tredici anni ne avessi ventitre o trentatre o non lo so, a quest’ora lo so io dove sarei.
 Lo spazio di un battito di ciglia e la piccola Lucia si vede in una chiesa riccamente addobbata con meravigliosi bouquet di fiori bianchi sparsi ovunque, un po’ come per un matrimonio per capirci. Eh già, il suo. Da lontano, in fondo alla chiesa, di fianco al prete dal volto tondo e bonario, vede colui che diventerà suo marito, un bell’uomo non c’è che dire, un sorrisino furbo attraversa il volto della ragazza, ottima scelta Lucia. Fatti solo pochi passi incerti nella chiesa vociante di amici e parenti, e si trova sdraiata improvvisamente su di un letto in una sala d’ospedale.
 Sente un dolore da togliere il fiato al basso ventre. L’ostetrica le sta gridando di spingere, la testa della sua bambina è già fuori.
 “Spingaaaaa”.
 Ancora scossa dalla sensazione assolutamente inattesa e destabilizzante di maternità, la scena cambia ancora sfondo. Ora è a un altro matrimonio, spera solo che non sia il suo secondo, era così bello il suo primo marito.
 È quello di Anna, la sua bambina, diventata ormai una splendida donna. Lucia è così fiera, si guarda le mani che tengono un fazzoletto bagnato di lacrime di gioia, sono grinzose, invecchiate, si rende conto con una punta di nostalgia che gli anni sono passati in un lampo. Al marito, di fianco a lei, i capelli grigi hanno preso il posto di quei bei capelli neri del giorno delle nozze, oramai così lontane, perse in ricordi neanche sbocciati.
 Appena il tempo di sentire un groppo chiuderle la gola che si trova esattamente nel bosco della castagnata, sente una voce dolce come zucchero filato che le grida in lontananza.
“Nonna, nonna guarda cosa ho trovato!”.
 Sente che camminare le costa un po’ di fatica, ha quella strana sensazione di affanno, tipica delle persone anziane, pensa. Ma quando vede quell’angelo correrle incontro, con un sorriso aperto come una scatola di cioccolatini il giorno di Natale, la stanchezza le passa all’istante, lasciando il posto ad una commozione che non ha parole presenti nel vocabolario per spiegarsi. La riconosce subito, la figlia di sua figlia arriva trafelata, una ciocca di  capelli biondi le esce dal cappellino di lana scuro.
 “Nonna, tieni, la mamma dice che porta fortuna”.
 Sulla sua manina una castagna rotonda come una biglia. Lucia la prende, la osserva un attimo e poi la mette in tasca, prima di chinarsi per baciare la piccola su una guancia arrossata dal freddo. “Lucia, ma si può sapere cosa ti è preso ? ti sei imbambolata?”.
 La voce di sua madre la riporta alla realtà, al bosco, al grigio di quella mattina che avrebbe volentieri passato a letto, alla castagnata coi suoi genitori. D’un tratto sente il bisogno impellente di abbracciare sua madre e suo padre, corre verso di loro e li stringe forte, come se lasciandoli potessero scomparire nella bruma, che li avvolge fino alle caviglie, alzandosi lenta dal terreno umido.
 “Ehi, e questo cosa vuol dire?”.
 E’ suo padre che ha parlato, piuttosto sorpreso, staccandosi lievemente dal triangolo perfetto che aveva creato l’abbraccio di Lucia.
 “Vuol dire che vi voglio bene e sono contenta di essere qui oggi, grazie”.
 Lucia si stacca di mezzo passo dai suoi genitori, continuando a tenerli per mano, lasciando i suoi ad osservarla piuttosto perplessi, sente una lacrima scenderle sul viso, cerca il fazzoletto in tasca ma trova qualcos’altro. Qualcosa di levigato e duro. Quando lo toglie dalla tasca per guardarlo si trova tra le mani una castagna, bellissima, lucida e rotonda, proprio come una biglia.

martedì 29 maggio 2012

Milano.

Milano è la città dove sono nato e dove vivo, non si può dire che sia una bella città, non la annovererei di sicuro tra le dieci città più belle d’Europa, e forse neanche d’Italia, al limite della Lombardia ecco, ma solo perché un po’ ci sono affezionato alla mia città. Milano però, nonostante tutto, ha i suoi pregi, i suoi lati, come dire, gradevoli.
Ha il castello Sforzesco, maestoso e imponente. Il Duomo, cattedrale gotica eternamente in manutenzione. Ha “L’ultima cena” di Leonardo e tante altre piccole grandi chicche che un turista medio può ritenere cosa buona e giusta da visitare.
Milano è famosa nel mondo per la moda e per la finanza. Per l’amaro Ramazzotti e il rito dell’aperitivo. Per le due scale, quella del calcio e l’altra, dove si canta e si balla allegramente e una volta all’anno si riempie di personalità di spiccata fama, integrità morale e buon gusto.
Milano è famosa per il panettone e per la nebbia.
Ma quello che rende davvero particolare Milano nelle ingenue menti dei non milanesi sono alcuni dettagli, divenuti col tempo il vero marchio di fabbrica della città che non dorme mai.
Già perché Milano rappresenta nell’immaginario collettivo la città sempre di corsa, dove tutto viene fatto per bene e in fretta, dove le persone le vedi scappare trafelate da un posto all’altra manco fossero inseguite da branchi di trader affamati. Dove tutto viene fatto secondo una logica chiara, cristallina, come direbbe Elio : inattaccabile.
 E qui casca l’asino.
Sì perché Milano ha delle peculiarità che come minimo ti spiazzano, ti lasciano attonito e in un bagno di sudore.
Avete presente Piazza della Scala ? bene. Qual è la statua che svetta imperiosa in mezzo alla piazza? La statua di Leonardo da Vinci. E allora uno si dice, va  beh, ci può stare. Infatti.
Ma esiste una piazza Leonardo da Vinci a Milano? Esiste e ha la sua bella statua : Eugenio Villoresi, quello del canale.
E allora il dubbio ti assale e ti viene da guardarti un po’ intorno, e scopri che anche in piazza Buonarroti ( avete presente Michelangelo ? immortale artista del rinascimento? ) c’è una bella statua ma non è quella che ci si aspetta, a meno che non vi aspettiate di trovarci quella di Giuseppe Verdi.
In via Giuseppe Verdi del resto non ci sono statue né effigi, e forse è giusto così.
E che dire dello sguardo severo del Manzoni che squadra malevolo i passanti da piazza San Fedele, o del Parini che avvolto nello scialle della nonna fa bella mostra di se in piazza Cordusio.
Lasciando via Manzoni e via Parini spoglie di ogni ornamento, non fosse per il cinema Manzoni e il liceo Parini.
Garibaldi in groppa al suo cavallo sembra non fare molto caso al fatto di trovarsi in piazza Cairoli anziché in corso Garibaldi.
Ma sarebbe stato bene anche in piazza Risorgimento, ma purtroppo era già occupata, da Cavour ? no, per fortuna Cavour lo hanno messo in piazza Cavour.In piazza Risorgimento c’è la statua San Francesco d’Assisi. Ovvio.
Oppure potevano parcheggiarlo in corso Indipendenza, ma l’indipendenza in fondo è solo una bugia, e forse è per quello che ci hanno messo un monumento a Pinocchio.
Ma ad essere onesti ci sono anche piazze che portano il nome della statua o del monumento che ospitano e viceversa, non è che viene fatto tutto a caso a Milano. Ogni cosa ha una sua logica.
E a proposito di logica, mi piace sottolineare la geniale invenzione del lavaggio strade.
Ma secondo voi, le automobili hanno davvero bisogno di una carreggiata lavata e incerata per avanzare sicure nella giungla d’asfalto ? Milano è una città dove circolano più SUV che utilitarie, forse che questi pachidermi inutili, anzi dannosi, fanno pure gli schizzinosi? “Ah guarda, io se la strada non è lucida lì non ci passo, non ho nessuna intenzione di sporcarmi gli pneumatici”.
Cioè, io sui marciapiedi devo fare lo slalom tra deiezioni canine, impetuosi torrenti di urina e spazzatura varia manco fossi Alberto Tomba, e loro fanno il lavaggio delle strade? Come dicevo : geniali.
Milano è una città sempre di corsa ? ma dove ? uno già esce di casa incazzato per la giornata che sta iniziando e tutto ad un tratto, girato l’angolo, si rimane imbottigliati dietro al camion della nettezza urbana che, tra sbuffi di pistoni, urla di immondizia stritolata e tanfo di morte se ne sta bloccato nel mezzo di vie a senso unico alle 8 e mezza della mattina. E gli automobilisti dietro, sempre più incazzati, con la vena sulla fronte che pulsa minacciosa, pronta ad esplodere.
 Che bella Milano, così in movimento eppure così perennemente incastrata nel traffico. Così sporca ma anche così pulita, o almeno con le mani pulite. Così modaiola e allo stesso tempo fuori corso, come la logica, che sembra non appartenere più al genere umano.
E come diceva Alberto Fortis nella sua canzone "Milano e Vincenzo" :
Mi piacciono i tuoi quadri grigi
le luci gialle, i tuoi cortei
oh Milano, sono contento che ci sei.
Vincenzo dice che sei fredda,
frenetica senza pieta'
ma e' cretino e poi vive a Roma, che ne sa?

e se avesse ragione Vincenzo ?